(APPARSO ALL'ORIGINE SU AZIONE DEL 8 OTTOBRE 2007)Due fratelli che si trascinano un mucchio di problemi, dei genitori proprietari di una gioielleria, una rapina apparentemente semplicissima da inscenare. Ciò che Lumet vuol mettere a sua volta in scena è la tragedia (greca, shakesperiana se tutto va bene) degli aspetti deteriori del nostri tempo e della nostra società quando entrano a minare l'intimità dei legami famigliari.
La sceneggiatura è densa, virtuosistica nella sua volontà di spiegare, di entrare nella meccanica degli avvenimenti che, a sua volta, deve spiegare quella delle psicologie. Un'infinità di avanti ed indietro, prima e dopo il fattaccio: all'interno dei quali l'ultraottantenne regista sa ancora muoversi con sorprendente libertà, lasciando scorrere la cinepresa per molti minuti, lasciando gli attori soli con le loro situazioni più o meno disperate.
Libertà e disperazione: è una discesa negli inferni del nodo di vipere famigliari di un pessimismo come poche altre volte nella lunga carriera di Lumet. Il fratello maggiore che si compiace del proprio successo finanziaria, e maschera il fallimento coniugale. Il minore che sopravvive all'equazione opposta nella sua debolezza di vittima cronica. Il padre da tempo mai padrone interpretato da un Albert Finney che finirà per invadere il film.
Un incastro infernale, che si appesantisce con il procedere dei minuti. Quando i vari elementi del film (dall'interpretazione, straordinaria specie in Philip Seymour Hoffman finalmente eretto a protagonista, al montaggio, al tono della regia) pur rimanendo altamente professionali tendono ad una accentuazione quasi fossero travolti dall'incedere apocalittico della vicenda.